Nella vita di ogni essere umano è quasi scontato avere dei progetti, dei sogni, degli obiettivi da raggiungere. Sin dall’infanzia i genitori ripongono nei figli un investimento affettivo che porta con sé desideri ed aspettative per la loro crescita, fino a renderli autonomi. La nascita di un figlio disabile porta invece con sé scompiglio, paura, angoscia; è difficile sognare un futuro per dei figli che non hanno capacità come tutti, che faranno fatica ad essere autonomi.
Il problema del “diverso” è stato affrontato da un grande numero di specialisti: ciascuno nel quadro della propria disciplina ne ha studiato un aspetto particolare. Medici, psicologi, pedagogisti, si sono preoccupati di affrontare da un punto di vista tecnico il problema della diagnosi, della cura, della riabilitazione, della progettazione. Gruppi politici hanno affrontato il problema dei disabili e della loro emarginazione, hanno fatto ipotesi e progetti di inserimento, hanno fatto proposte legislative. I libri sull’argomento sono molti ma ancora oggi il vissuto ed il dramma delle famiglie viene tralasciato, a volte dimenticato.
Il problema della disabilità di un bambino alla sua nascita è il momento più importante della vita dei genitori anche quando non è il solo e unico problema. Alcuni, e in tutti i casi sempre la madre, hanno rinunciato al lavoro per dedicarsi interamente al bambino. Scelta obbligata fra casa e lavoro perché sostenere due ruoli è materialmente impossibile.
Qualcuno invece si è chiuso nel proprio dolore ed è diventato incapace ed insufficiente come il proprio bambino.
Il lavoro dell’educatore è difficile: entrare in relazione con famiglie che portano problematiche profonde richiede un ascolto empatico non indifferente; mettersi nei panni dei genitori, di chi si relaziona con un ragazzo disabile al di fuori del tempo occupato in un Centro diurno, rende l’educatore maggiormente consapevole della stanchezza e delle possibili dinamiche cristallizzate che si vengono a creare all’interno del nucleo familiare.
Riconoscere la sofferenza, la fatica, il disagio nel vivere costantemente nell’incertezza per il futuro dei propri figli diventa per l’educatore, il primo passo per entrare in relazione con le famiglie, anche quelle che possono sembrare totalmente isolate.
L’educatore, attraverso l’osservazione e la conoscenza sempre più approfondita della presa in carico, si occupa di formulare, in collaborazione con la famiglia, un progetto educativo individuale che prevede la strutturazione di attività ed occasioni in contesti di vita normale con lo scopo di favorire una condizione di benessere per il disabile.
Entrare in relazione con ambienti “normali” non è semplice: la patologia e la disabilità, nonostante un grosso cambiamento di prospettiva degli ultimi venti anni circa, comunque all’inizio può generare vissuti di vergogna e disagio. L’educatore entra in campo come mediatore della relazione per permettere il crearsi di rapporti significativi, per promuovere la cultura della disabilità come qualcosa di diverso ma altrettanto ricco.
Le esperienze di integrazione con il supporto della figura educativa aumentano la condizione di benessere del soggetto disabile che riporta i propri vissuti all’interno del nucleo familiare, modificando quelle dinamiche che sembravano cronicizzate.
Le visite domiciliari aiutano la famiglia a cambiare opinione circa le capacità e le potenzialità del figlio.
La famiglia è un anello fondamentale per la crescita di qualunque individuo soprattutto se questo individuo non è in grado di essere autonomo: è ingiusto descrivere i genitori dei ragazzi disabili solo come persone tristi ed arrabbiate. In realtà, dentro molti di questi genitori c’è anche la conquista di una lettura del mondo e di ciò che vi accade secondo un ordine valoriale non banale, non scontato, di profondità indiscussa.
Spesso la speranza dei genitori, il loro diritto a poter sperare, viene letto dai servizi come illusione, “fuga dalla realtà”, non consapevolezza della gravità della situazione, quando invece la verità è che i genitori si permettono di sognare.
Altre volte sono i genitori a vedere i figli quali realmente essi sono, mentre gli educatori sono lontani dal percepire le potenzialità del ragazzo.
Si tratta di una situazione difficile, perché i genitori vengono letti dai tecnici come coloro che non hanno un’immagine realistica del figlio.
Quello che si percepisce stando accanto ai genitori è che il gioco è condotto dai diversi tecnici che si susseguono. Ciascuno di loro pensa di aver in mano una verità da insegnare ai genitori, mentre i genitori, gli unici che hanno in mano l’interezza della vita del proprio figlio, non sono autori, neppure co-autori del suo progetto di vita.
Per potersi rapportare con i servizi ed essere accolti, ascoltati e presi in considerazione, i genitori devono essere perfetti e molto più professionali di quanto non venga richiesti agli educatori o ai tecnici. Devono essere genitori sempre equilibrati, che non si facciano trascinare in false visioni dalle emozioni, che siano pronti a modificare il proprio punto di vista ascoltando. Altre volte ancora, i genitori fanno fatica a vedere e a cogliere circoli viziosi che un educatore o un tecnico, da fuori può vedere con maggior facilità.
Allora qui l’attenzione che deve scattare è di non etichettare il genitore, di non vederlo quale utente aggiunto, perché questa logica in realtà blocca ogni possibile principio di cambiamento. Le famiglie hanno bisogno di non sentirsi sole, giudicate, e con la vita programmata da altri. Ricercano una guida che dia loro sicurezza per poter operare scelte consapevoli.
L’educatore allora deve sforzarsi di guardare oltre le parole a volte dure dei genitori, oltre la loro apparente assenza, oltre il loro silenzio. Deve comprendere che alle spalle di ogni soggetto disabile vive una famiglia con una storia, con le sue difficoltà e le sue paure, con il bisogno di essere accolta e di non essere giudicata e per questo si deve sforzare di aiutarla ad essere quanto più possibile partecipe della crescita e delle esperienze dei figli. Il contesto familiare e il rapporto con parenti e amici hanno grande rilievo per l’integrazione di coloro che hanno bisogno non solo di aiuti concreti ma anche di sostegno psicologico e di rapporti interpersonali soddisfacenti. La famiglia ha un ruolo fondamentale.
Il “permesso di crescere” di una persona in giovane età, pur con delle controversie, arriva dalla sua famiglia, se la persona è diversabile la necessità dell’approvazione dei propri familiari diventa indispensabile.
Il lavoro con la famiglia diventa elemento cardine della professionalità dell’operatore, è indispensabile costruire “un’alleanza”. L’alleanza è un obiettivo prioritario che coinvolge quindi il diversabile, la sua famiglia e il servizio. La collaborazione con la famiglia per un progetto di vita è un’ operazione psicologica molto delicata che deve vedere l’operatore soprattutto disposto “all’ascolto”. Alleanza vuol dire in primo luogo immedesimarsi, capire davvero il punto di vista dei familiari.
Gli operatori devono aiutare le famiglie a favorire, nei confronti del figlio, i processi di separazione-individuazione, essenziali per il raggiungimento di un assetto identitario sufficientemente stabile e soprattutto adulto.
Un servizio dovrebbe mettersi in una situazione di “scambio” delle informazioni. L’operatore deve imparare a riconoscere le emozioni e le percezioni che sente nei confronti delle persone diversabili e delle famiglie per poter avere delle informazioni utili ed individuare i sentimenti della famiglia nei suoi confronti e del servizio. Il servizio dovrebbe porsi positivamente con le famiglie in modo che esse possano mostrare le proprie competenze, creare un’atmosfera positiva di complicità e di riconoscimento reciproco di risorse.
L’alleanza è come un legame nato da affinità di scopi tenuto saldo da stima e considerazione reciproca che si costruisce giorno dopo giorno e si fonda sulla fiducia.